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Marica Vaona

Vita da #caregiver


“Caregiver” è un termine inglese, che indica “colui o colei che si prende cura di”, ovvero chi si assume, in prima persona, il maggiore carico di assistenza di una persona malata o con una disabilità. Si tratta di un ruolo spesso silenzioso, nascosto, non riconosciuto. I caregivers informali, chiamati così per distinguerli da chi svolge professionalmente l’assistenza per lavoro, coincidono con familiari stretti che compiono tutta una serie di atti, che possono variare lungo un continuum che va dalla sorveglianza passiva (presenza, controllo e prevenzione) all’assistenza diretta (in integrazione o sostituzione completa alla persona), all’interno di una relazione in cui entrano in gioco dinamiche emotive e affettive.

Secondo un’indagine di ISTAT relativa al 2015 (il dato ufficiale più recente) sarebbero 8,5 milioni i caregivers in Italia (il 17% della popolazione), di cui 7,3 milioni caregivers familiari. Di questi sono 2.146.000, il 25,1%, coloro i quali dichiarano un impegno assistenziale superiore alle 20 ore settimanali. Generalmente sono donne (80%), di cui circa il 30% di età inferiore ai 45 anni ed il 45% tra i 45 e 65 anni.

A livello europeo e nazionale, da anni, sono in corso processi finalizzati a far riconoscere – e a valorizzare – questo imprescindibile ruolo di cura. Recentemente, l’attività del caregiver è stata riconosciuta nella legge di Bilancio 2018, che ha istituito per loro un fondo di 20 milioni di euro l’anno per il triennio 2018-2020, definendo caregiver “la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile o convivente di fatto, di un parente o di un affine entro il secondo grado, o di un parente entro il terzo grado”. La persona assistita è colei che per malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non è autosufficiente, o è riconosciuta invalida in quanto bisognosa di assistenza globale e continua di lunga durata oppure è titolare di un’indennità di accompagnamento.

La vita del caregiver è diversa dalle altre, ed è diversa dalla sua stessa vita prima di diventarlo. “Mi sembra di vivere una vita parallela…” (figlia). Poco importa se ciò avviene gradualmente, prendendosi via via sempre un po’ più cura di un genitore che sta invecchiando o di un proprio caro con una malattia degenerativa, oppure improvvisamente, a causa di un grave incidente oppure un ictus o una patologia improvvisa che lasciano il familiare con un’invalidità.

E così all’interno della relazione cambiano i ruoli: mogli che imparano a destreggiarsi fra le incombenze burocratiche ed economiche, relative alla casa per esempio, che prima erano di competenza del proprio marito; mariti che apprendono a cucinare, fare lavatrici, curare l’igiene delle proprie mogli; figli che diventano genitori del proprio genitore e tanto altro.

In ogni caso il caregiver si troverà a fare i conti con fatiche e difficoltà emotive, immerso in una realtà complessa, richiestiva e difficile, carica di responsabilità gravose alle quali per affetto e per senso del dovere è quasi impossibile sottrarsi. Il caregiver deve imparare in fretta, e diventare un curante esperto. Ogni giorno ripete manovre assistenziali (dall’imboccare all’aiutare con le funzioni fisiologiche), procedure mediche (dal cambiare medicazioni al posizionare cateteri), funzioni e posologie di diversi farmaci, e in tutto questo superare paure, disgusto e frustrazioni. Nelle disabilità più gravi, inoltre, le manovre assistenziali portano il caregiver ad un’intensa stanchezza, dolori e un precoce logorio fisico. I caregivers si ammalano più frequentemente degli altri ma non possono permetterselo e così si trascurano. Nelle situazioni più gravi l’assistenza è completa e richiede una presenza costante, necessaria per svolgere sia un controllo che sostituirsi alla persona in tutte le funzioni in cui lei è ostacolata. Il tutto avviene spesso in un crescente isolamento. Nel caso di un anziano che si ammala di #demenza, il caregiver spesso lamenta il fatto che gli amici di sempre della coppia, se si tratta di un coniuge o del genitore, se si tratta di un figlio, spariscono, a volte dietro l’alibi del “non sapere cosa dire”. Se dietro questo atteggiamento si nascondono frequentemente la paura della sofferenza altrui, la paura di guardarsi allo specchio e scoprire che il nostro amico con la demenza potremmo essere noi, è pur vero che ciò fa sentire sempre più solo il caregiver. A volte è l’anziano stesso che capendo ciò che gli sta capitando, si ritira dalla vita sociale per non esporre la propria crescente inadeguatezza. Altre volte i caregivers si sentono abbandonati anche dagli altri familiari che possono sminuire le difficoltà o non capire le loro scelte, le cui responsabilità ricadono pesantemente solo su di loro.

Al tempo stesso, per i caregivers diventa molto più difficile frequentare i propri amici che nel tempo cominciano a diradarsi, riducendosi così ulteriormente, le occasioni per rigenerarsi attraverso eventi sociali, di divertimento e svago, e a contrastare l’isolamento rimangono spesso soltanto le relazioni con altri caregivers e, in alcuni casi, con operatori.

Le energie fisiche, mentali ed emotive piano piano diminuiscono. Pensieri e attenzioni si focalizzano solo sul proprio caro. La relazione affettiva diventa un vincolo, ci si prende cura di una vita che richiede di mettere da parte la propria. A volte l’amore per il proprio familiare si scontra con il desiderio che tutto questo finisca per poter tornare ad una propria libertà, non senza dolorosi sensi di colpa. Infatti, con le energie, se ne va anche il tempo del caregiver, e con esso i propri spazi, i propri interessi, le proprie realizzazioni.

Il caregiver è colui che spesso accompagna il proprio caro ai vari appuntamenti con i diversi specialisti: medici diversi per problematiche diverse, a volte in ospedali diversi, fisioterapisti e terapisti occupazionali per le riabilitazioni o il mantenimento delle abilità residue, assistenti sociali per recuperare aiuti o informazioni, psicologi per il supporto emotivo, centri sportivi, ricreativi o socializzanti per contrastare l’isolamento. Altre volte, se non può accompagnarlo personalmente, organizza e coordina operatori e programmi per l’assistenza al domicilio. Diventa il case manager del proprio caro. Inevitabilmente, essendo depositario della storia medica e assistenziale del proprio familiare, è anche la persona che si deve muovere tra ospedali ed uffici per sbrigare tutte le necessarie pratiche burocratiche, spesso lunghe in termini di tempo e complesse. A volte ci si sente come una pallina da flipper che sbatte a destra e a manca.

Per il caregiver lavoratore la vita tra lavoro, casa, famiglia e cure della persona con disabilità è spesso concitata, e non sempre i permessi lavorativi, se possibili in quanto dipendenti, sono sufficienti. Frequentemente lamenta la poca comprensione da parte dell’azienda in cui lavora, o sente di perdere il proprio riconoscimento professionale a causa delle proprie assenze. Talora deve destinare una parte dello stipendio per pagare assistenti che si prendano cura del proprio caro mentre lui è al lavoro, e a volte, per necessità assistenziali o costi, si vede obbligato a rinunciare lui stesso al lavoro per dedicarsi all’assistenza a tempo pieno. Per il caregiver non lavoratore d’altro canto non ci sono attualmente riconoscimenti economici né pensione.

La disabilità, inoltre, comporta spese aggiuntive e importanti, non sempre coperte, interamente o parzialmente, dal Sistema Sanitario Nazionale o dai contributi e agevolazioni: spese quotidiane per farmaci, materiali di consumo e ore extra di assistenza da parte di operatori si aggiungono ad ausili costosi e indispensabili come carrozzine, protesi, letti, strumenti tecnologici per l’assistenza, adattamenti per l’auto e ristrutturazioni di casa. Un impegno economico che a sua volta diventa un’ulteriore fonte di preoccupazione e stress. Così i caregivers si ritrovano molto spesso a dover affrontare da soli tutte le fatiche e le difficoltà, sia concrete che emotive, senza alcun supporto e anzi, talvolta, dovendo loro fornire supporto emotivo al proprio familiare con disabilità.

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